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Biffi: con l'Islam il dialogo è finito
Il cardinale di Bologna: "Stiamo perdendo l'identità cristiana... gli ingressi vengano selezionati anche in base alla religione"
Su la Stampa


Ieri pomeriggio, in apertura del convegno sulla multiculturalità dell'istituto "Veritatis Splendor" di Bologna, il porporato ha lanciato l'allarme dell'invasione islamica in Europa. Biffi punta l'indice contro la perdita dell'identità cristiana, causata dalla "dominante cultura del dialogo".

I cattolici, avverte Biffi, stanno perdendo la loro originale identità, ne è la prova la recente dichiarazione "Dominus Iesus" dell'ex Sant'Uffizio. "In venti secoli di cristianesimo - spiega - non era mai capitato che si sentisse il bisogno di ricordare una verità così elementare e primaria: Gesù è l'unico Salvatore. Evidentemente si è temuto che di questi tempi Cristo potesse diventare l'illustre vittima del dialogo interreligioso".

"Il Vangelo e la missione salvifica di Gesù - sottolinea Biffi - sono dei fatti e quindi non sono trattabili. Coloro che credono non li possono né attenuare né mettere tra parentesi e quanti non credono non li possono razionalmente accettare. La natura lacerante del messaggio cristiano è evidente in alcuni passaggi della parola di Dio, oggi abbondantemente censurati. Cristo annuncia: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada". Alla luce di tali insegnamenti, il principio secondo cui bisogna guardare "più a ciò che ci unisce che a quello che divide" è ambiguo e alienante"".

"Noi cattolici - prosegue l'autorevole prelato nel suo j'accuse - non dobbiamo nutrire nessun complesso di colpa a causa delle drammatiche emergenze che non riusciamo ad affrontare efficacemente. E' compito, invece, di ogni battezzato far conoscere Gesù. E' un preciso ordine del Signore e non ammette alcuna deroga. Cristo non ci ha detto: Predicate il Vangelo a ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama".

"Non è pensabile che si possano accogliere tutti - precisa - è ovvio che si imponga una selezione. La responsabilità di scegliere non può essere che delle autorità italiane, non di altri. Non si può consentire che in realtà la selezione sia lasciata al caso o, peggio, alla prepotenza".

Il Vaticano non cambia linea "Il nostro riferimento è l'appello di papa Wojtyla alla tolleranza"
Su la Stampa

"Nessuna marcia indietro, il dialogo con l'Islam è una scelta irreversibile - attacca la sua replica al cardinale di Bologna, Biffi, il sottosegretario del dicastero per il dialogo interreligioso

Nel mondo cattolico, comunque, l'"allarme Islam" di Biffi trova numerosi consensi. "L'irresponsabile politica terzomondista di tante realtà ecclesiali - afferma don Gianni BAGET BOZZO - ha contribuito a creare quel clima antioccidentale che ha armato i kamikaze islamici. Ha fatto bene il cardinale Sodano a non condannare preventivamente la risposta americana alla furia assassina dei fondamentalisti di Bin Laden. I morti delle Due Torri sono martiri della fede". Per BAGET BOZZO, le stragi negli Usa si inscrivono, infatti, in quella guerra dei musulmani contro i cristiani che è in corso da Timor Est alla Nigeria. Nella galassia ecclesiale, poi, inizia a farsi largo la convinzione che non sia più possibile appellarsi ad un pacifismo assoluto. "Noi siamo favorevoli ad un'operazione di polizia militare - dichiara Giorgio Vittadini, il presidente della Compagnia delle Opere su “Tempi”, il settimanale vicino a Cl - la strada è lunga e difficile, i nemici della libertà sono il fanatismo religioso e l'ideologia".


"Sbagliato criminalizzare i musulmani"
Silvestrini: la nostra fede non ci permette di combattere
Su la Stampa

DOMANI Giovanni Paolo II parte per il Kazakhstan e l'Armenia; un viaggio all'ombra della crisi, dei venti di guerra che potrebbero sfiorare il viaggio papale. L'Asia Centrale, e in particolare Astana, è a un'ora e mezzo di volo (di jet militare) dalle aree dell'Afghanistan possibile bersaglio della rappresaglia. Il Kazakhstan insieme a una forte presenza ortodossa, e a centinaia di migliaia di cattolici, ha una maggioranza musulmana. E' un elemento che può costituire un rischio? Secondo il cardinale Achille Silvestrini, una vita spesa a guidare la diplomazia vaticana, e a gestire i rapporti con le chiese dell'Oriente, il vero pericolo è quello di criminalizzare l'Islam, a causa della tragedia americana. E lancia l'idea di un'iniziativa congiunta delle chiese cristiane proprio per dimostrare e far capire che non c'è nessuna velleità di crociate.
Il Kazakhstan è terra di deportazioni staliniste; tedeschi del Volga, polacchi, ucraini. Poi, per lungo tempo non si sono avute notizie: "quindici anni fa non si immaginava neanche che ci fosse questa presenza cattolica, non si sapeva - dice il cardinale Silvestrini - Siamo un po' al margine di quella che era l'antica cristianità russa. Lì c'è una prevalenza islamica, che io non credo che sia coinvolta in queste vicende che toccano l'Afghanistan. Credo che ci sarà collaborazione, da parte delle autorità musulmane".
I musulmani sono otto milioni, e sei milioni i cristiani; è una situazione di equilibrio.
"Quando c'è una multiconfessionalità bilanciata è più facile. Quando invece c'è l'egemonia di una tradizione sola gli altri vengono emarginati. Quello che dobbiamo desiderare, ma purtroppo non basta desiderare, in Medio Oriente è che i cristiani non se ne vadano. Invece la tendenza è di andarsene. Nell'Impero Ottomano c'era il venticinque per cento di cristiani, in quelle aree lì, adesso siamo al dieci per cento".

"Quello che è accaduto negli Stati Uniti è gravissimo perché rivela che i terroristi vedono in questa grande potenza economica un nemico. E se l'Occidente non si farà carico di iniziative per lo sviluppo...Siamo visti come una fortezza; e la cosa peggiore che possiamo fare è criminalizzare l'Islam. L'Islam è un magma enorme che va dal Marocco all'Indonesia, una miriade di popoli diversi. E' vero che hanno sentimenti, principi religiosi, appartenenze comuni; però poi all'interno e fra di loro hanno diversità forti. Bisogna mantenere un buon rapporto, e non gettare i moderati in braccio agli estremisti".
Che cosa si può fare di concreto?
"Credo che bisognerebbe pensare a un'iniziativa delle chiese cristiane; un messaggio di fraternità. Dire ai musulmani: non siamo contro di voi, pensiamo che l'Islam sia una forza religiosa rispettabile. Il Papa in questo senso è un esempio. Parla dei principi generali: il Dio misericordioso, la responsabilità morale della coscienza, l'attesa della vita futura, il pellegrinaggio, il digiuno, la preghiera e l'elemosina. Porre sul tavolo queste cose, comuni. E poi sviluppare uno spirito di collaborazione per il futuro del mondo".


"Si spengano i focolai del terrore ma il mondo deve salvare la pace"
Il cardinale Martini su la Repubblica

Il cardinale Martini vede un buon segno nella rinuncia degli Usa a una rappresaglia immediata, ma chiama l'attenzione sul fatto che ancora non sono state rese pubbliche le prove della colpevolezza di bin Laden.

I terroristi hanno dimostrato di conoscere alla perfezione la realtà e l'immaginario americano. Noi dei terroristi non sappiamo nulla.
"Anche perché non sappiamo chi ha concepito l'attacco. Ancora non conosco i motivi che fanno pensare solo a bin Laden. Se delle prove ci sono, non sono state portate in pubblico. Ma è vero, la loro azione per noi non era quasi pensabile. Io non sono però portato a interrogarmi su questo, mi preoccupano di più gli aspetti positivi della cosa, capire come è possibile continuare a credere in una civiltà dell'amore. Il Vangelo ci invita a considerare queste cose cercando di salvare la pace e la giustizia e di trarre dal male il bene: resistendogli e spegnendolo in modo da far trionfare un ordine dettato non dalla paura ma dal bisogno di giustizia".
Nell' appello di lunedì, i vescovi europei dicono: "non c'è nessun fondamento teologico al terrorismo nella fede cristiana, ebraica e musulmana". Questo contraddice il sentire comune. Ha letto ieri su "Repubblica" l'articolo di Saramago sulle violenze cristiane ?
"Non posso rispondere a Saramago, ma solo dire che non abbiamo nessun motivo per identificare violenza e religione. Nell'anno giubilare il papa ha chiesto perdono a Dio per l'uso che nel passato la chiesa ha fatto della violenza, giustificandola. Sappiamo che ogni sentimento forte (e non solo religioso, anche l'illuminismo per esempio), se deviato, porta a prevaricare; quando la violenza indossa un manto religioso ci troviamo di fronte a una deviazione. Nella Bibbia, i profeti leggono la violenza come conseguenza del peccato. Il peccato trova la sua punizione nella nuova violenza che suscita. Noi però leggiamo i profeti alla luce delle parole di Gesù riportate da Luca, quando nega che i Galilei massacrati da Pilato e i cittadini di Gerusalemme morti per il crollo di una torre avessero peccato più degli altri : "No, vi dico; ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo." Abbiamo riflettuto molto su queste cose a proposito della bomba atomica, di ciò cui ricorre l'uomo quando si lascia sconvolgere dall'odio. La nostra lettura della Bibbia ci porta a riconoscere che la massa dei peccati causa lacerazioni e anche forme di autodistruzione. Oggi ci fa dire che non basta distruggere i focolai del terrore se non c'è l' impegno per il superamento della povertà".

Tra cristiani e islamici ci sono stati anche periodi di tolleranza, di scambio, di mutua comprensione. San Tommaso ha conosciuto Aristotele tramite gli arabi, e con tanti islamici io ho dialogato. Figurare uno scontro tra civiltà è una semplificazione pericolosa per le emozioni che rischia di suscitare. Ed è sbagliato pensare che in Medio Oriente sia inevitabile uno sviluppo negativo; l'accumularsi dei conflitti non porta alla vittoria di nessuno, e si rifà strada il desiderio di pace. I momenti oscuri non sono l'ultima parola della storia"

Su un fatto che ora appare piccolissimo, il G8 a Genova, diverse istanze della chiesa hanno reagito in modo diverso. Come giudica la partecipazione di cattolici laici, preti e religiosi alle manifestazioni ?
"La via intrapresa dal cardinale Tettamanzi è stata buona, ha promosso un'ampia riflessione culturale sul tema prima della manifestazione e questo è l'unico modo per contrastare semplificazioni e violenza. Si deve badare molto alla violenza anche verbale, ricordare che chi insulta "ha già commesso omicidio nel suo cuore". Quanto alle manifestazioni pacifiche, possono essere utili ma rischiano di semplificare i dati. E poi, certo, si deve poter dire in pubblico ciò che si pensa, ma nella consapevolezza che l'impegno non si esaurisce nel gridare slogan. Non dobbiamo lasciarci ipnotizzare dalla difesa dal male, ma pensare alla crescita del bene solidale e condiviso".

Il Kazakhstan attende Wojtyla
su Avvenire


È ufficiale … che Giovanni Paolo II si recherà nella più grande delle repubbliche centro-asiatiche sorte dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica, un Paese vastissimo (due milioni 800 mila chilometri quadrati) ma scarsamente popolato (15 milioni di abitanti), un mosaico di nazionalità (ben 102: i kazakhi sono solo il 40% della popolazione, i russi col 30% sono la minoranza più consistente), una terra a metà strada fra Roma e Pechino dove i cattolici sono una sparuta minoranza (300 mila, il 2% della popolazione), dove il rapporto dei seguaci di Roma con i fedeli ortodossi del Patriarcato di Mosca è generalmente buono, dove la maggioranza è musulmana ma prevale un islam non integralista. Il Kazakhstan - Paese oggi ancora povero ma dalle grandi risorse minerarie e petrolifere, che stanno attirando investimenti stranieri - è indipendente dal 1991 e da allora è governato dal "padre-padrone" Nursultan Nazarbaev.

Il viaggio in Armenia, invece, era già stato programmato per il 1999. Ma la morte di Karekin I, "catholicos" della Chiesa armena, avvenuta nella festa dei santi Pietro e Paolo proprio nel '99, aveva spezzato il desiderio di Wojtyla d'incontrare l'"amico" Karekin, protagonista del dialogo ecumenico.

Ebrei e Islam
Amos Luzzatto su l'Unità
del 18.09.2001

È ricorrente la tentazione di attribuire agli ebrei un complotto contro il resto dell'umanità. Tale era il contenuto dei "Protocolli dei Savi anziani di Sion" (gentilmente distribuito a Durban da qualche Ong); tale sta diventando ora il "Sionismo". Che il Sionismo, movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico, abbia, fra le sue correnti, anche degli estremisti, è certamente vero. Né più né meno di quanto è successo in tutti i movimenti di liberazione nazionale, compreso quello palestinese. Noi, da parte nostra, non commetteremo l'errore di estrapolare dalla minacciosa attuale, presenza di un terrorismo internazionale di matrice musulmana (che esiste) l'identificazione di tutto l'Islam con il terrorismo. Questo atteggiamento ci collocherebbe su un terreno che confina con il razzismo. Sappiamo che l'Islam, come religione, non diversamente dalle altre religioni, conosce elementi di pensiero pacifista, di amore universale, persino di spunti di tradizioni ebraiche. Anche in Italia esistono esponenti musulmani che si esprimono lungo queste linee di pensiero. Li conosciamo, li apprezziamo. Non li respingeremo mai, resteremo in dialogo con loro. Allo stesso tempo, però, ci aspettiamo da loro di non accontentarsi di una testimonianza personale, per quanto nobile e apprezzabile, ma di passare da questa a un autentico movimento di opinione, a un'espressione di massa. Il mondo deve cercare di costruire una estesa alleanza democratica che sappia sconfiggere il terrorismo, come metodo di lotta e come bandiera di mobilitazione. In questa, e solo in questa cornice, deve esserci lo spazio anche per i musulmani.

"La violenza non ha alcuna giustificazione, ma dobbiamo evitare di scatenare una guerra tra islam e Occidente"
Susan George su Avvenire

"Stiamo correndo tutti quanti un grave pericolo: un pugno di persone, nel mondo, potranno causare un grave danno all'umanità intera, se la risposta alla violenza terrorista, che ha recentemente colpito gli Usa, sarà quella della guerra contro i Paesi arabo-islamici. Per favore, non cediamo alla trappola tesa da Benladen all'Occidente. Se Bush reagirà, come ha promesso, con la politica del far-west, Europa e America saranno coinvolte in un conflitto totale con l'islam. Questo è il piano del miliardario saudita. Ed è terribile". Susan George, responsabile del Transnational Institute e vicepresidente di Attac-Francia, uno dei gruppi che, da anni, denuncia i danni umani, sociali e ambientali causati dall'economia neoliberista, lancia il suo appello con lucida tranquillità, di fronte ad oltre cinquecento persone riunite nel Salone dell'Istituto Missioni Consolata di Torino.
Signora George, a seguito dell'attacco terroristico alle Twin Towers, in America, tra la gente serpeggia paura e diffidenza, e un profondo senso di impotenza. Qualcuno punta il dito anche contro il movimento antiglobalizzazione, accusandolo di aver seminato odio e intolleranza contro l'Occidente, e gli Usa in modo particolare, e contro i valori politici ed economici che esso rappresenta. Che ne pensa?
Innanzitutto, non siamo contro la globalizzazione, intesa come apertura alle altre culture, alla solidarietà e al rispetto fra i popoli. Poi, noi siamo nonviolenti e pacifisti al 100%. Non predichiamo l'odio o la violenza contro l'Occidente. Ci battiamo invece contro l'iniquità, la scandalosa disparità tra mondo ricco e popolazioni povere. Questo sì, crea sofferenza e desiderio di rivalsa. Inoltre, noi non abbiamo nulla a che vedere con il Medio Oriente e con il terrorismo. Il nostro programma è assai differente da quello di Bush: perché bombardare un Paese che vive già all'età della pietra? È stupido e inutile. E si rischia l'escalation della violenza. Proporre, come fa lui, una risposta classica - la guerra - ad una provocazione, una minaccia non tradizionale, è frutto di cecità politica.
In alternativa, cosa propone come risposta alla strage terroristica?
Innanzitutto, la risoluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi, che alimenta un enorme e permanente focolaio di sofferenza e di odio. Chiudiamo Arafat e Sharon in una stanza e lasciamoceli finché non trovino un accordo equo per entrambe le parti. Gli Usa e l'Europa protrebbero spingere in tal senso. Poi, eliminiamo il debito estero, che affama i Paesi poveri impedendo loro qualsiasi possibilità di sviluppo economico, sociale e culturale. Per evitare le guerre e gli atti terroristici è necessario, infatti, cambiare lo scenario dell'economia globale: bisogna creare un nuovo piano Marshall, esteso a tutto il Terzo Mondo, con la partecipazione, però, dell'intera società civile dei Paesi coinvolti. Per questo piano possiamo trovare i fondi con i contributi raccolti attraverso la Tobin Tax, la tassazione dei capitali, la cancellazione del debito estero. Tuttavia, non basta versare aiuti economici ai governi, disinteressandosi di tutto il resto. Aumentiamo i finanziamenti pubblici destinati allo sviluppo. Solo così si potrà ridurre il terreno di coltura del terrorismo. Questo, infatti, si nutre dell'ineguaglianza tra i popoli e della sofferenza da essa generata. Ecco perché le bombe contro i terroristi non servono se non a generare altro odio: noi possiamo vedere più lontano di Bush e della guerra. Vediamo infatti profilarsi all'orizzonte un pericolo enorme per tutta la popolazione mondiale: lo scontro tra islam e Occidente. E un miliardo di musulmani può veramente realizzare un grande jihad mondiale, dove le loro possibilità di vittoria sono molto alte. Tutti i musulmani miserabili, senza prospettive, avrebbero finalmente l'occasione di combattere contro ciò che percepiscono come un nemico, l'Occidente ricco e potente.

Il grande segreto custodito dal neoliberismo è che la sofferenza, causata dall'ineguaglianza fra i popoli, non è inevitabile, non rappresenta affatto un comandamento divino.


La nostra ragione
Vittorio Agnoletto su il Manifesto

Undici settembre, sono appena arrivato a Porto Alegre, insieme a Perez Esquivell, premio Nobel per la Pace, per la cerimonia di lancio del Forum Sociale Mondiale, che per la seconda volta si svolgerà nella capitale del Rio Grande do Sul dal 31 gennaio al 5 febbraio in concomitanza e in contrapposizione col vertice del grandi a Davos. E' il vicesindaco che ci comunica la notizia degli attentati criminali di Washington e New York. Immediatamente tutti percepiamo l'enormità della tragedia e i pericoli e le incertezze che si profilano all'orizzonte per l'insieme dei nostri movimenti e per l'umanità tutta. Per gli amici e compagni sudamericani la memoria ritorna velocemente a un altro 11 settembre, quello del '73, quando il golpe del generale Pinochet contribuì a sprofondare l'intero continente latinoamericano negli anni bui della dittatura.
All'apertura del convegno pomeridiano leggiamo, a nome del Forum Sociale Mondiale, una dichiarazione che condanna duramente gli attentati, esprime solidarietà al popolo americano e chiama alla mobilitazione i movimenti sociali per evitare che la vendetta che la guerra, con il loro seguito di migliaia di morti innocenti, sostituiscano una ricerca della giustizia dei colpevoli; alta è anche la preoccupazione che qualcuno pensi di utilizzare la tragedia statunitense per ridurre gli spazi di democrazia e per criminalizzare i movimenti contro questa globalizzazione ed arrestarne la loro forte diffusione.
Quarantott'ore dopo, il mio rientro in Italia, questo timore è diventata la realtà con la quale dobbiamo confrontarci.
Ragioni profonde
Oggi siamo solidali col popolo americano e con le donne e gli uomini di New York e di Washington e siamo vicini alla loro immensa sofferenza. Per la stessa ragione per la quale non riusciamo a restare indifferenti di fronte ad 800 milioni di persone che muoiono di fame, ai 40 milioni che muoiono di Aids, e ad oltre un miliardo di esseri umani che non hanno accesso all'acqua potabile; non riusciamo ad entusiasmarci per i profitti delle multinazionali e per gli affari dell'industria bellica. Non sopportiamo che centinaia di migliaia di neri siano relegati nelle periferie delle nostre città, sempre più simili a delle discariche sociali, come non tolleriamo l'apatia generale di fronte alle "riserve indiane" dove vogliono rinchiudere milioni di palestinesi. E sono queste le ragioni che oggi come ieri ci contrappongono al sistema politico-economico ove si intrecciano gli interessi delle multinazionali, delle lobby e del governo Usa. Anche in questo drammatico momento, mentre esprimiamo solidarietà al popolo americano, rivendichiamo il nostro diritto al dissenso.

Proprio la consapevolezza della responsabilità che su di noi oggi grava ci ha spinto a lanciare una campagna contro il terrorismo e la guerra, e per la pace e la giustizia sociale: iniziamo oggi una settimana di mobilitazione in tutte le città d'Italia in occasione del vertice Nato a Napoli per giungere infine alla grande manifestazione del 14 ottobre in occasione della Perugia-Assisi.

Mai come oggi la lotta per la pace è quanto di meno aleatorio esista: non è uno degli impegni fra i tanti; non è la seppur importante solidarietà ai settori sociali in lotta o il necessario impegno a fianco di un popolo contro la dittatura è una lotta per garantire il futuro all'intera umanità.

La maledizione dell'11 settembre
28 anni fa il golpe in Cile: adesso anche gli USA capiscono cosa vuol dire essere "desaparecido"
Ariel Dorfman su la Stampa

NEGLI ultimi 28 anni, il martedì 11 settembre è sempre stato un giorno di lutto per me e per milioni di altre persone, a iniziare da quel giorno del 1973 in cui il Cile perdette la democrazia con un golpe militare, un giorno in cui la morte entrò irrevocabilmente nelle nostre vite cambiandoci per sempre. E ora, quasi trent'anni dopo, i maligni dèi del Caso hanno voluto che lo stesso tragico giorno, di nuovo un martedì, di nuovo un 11 settembre, diventasse simbolo di terrore e di morte anche per un altro Paese.

È nel mezzo di tutto questo sconcerto che vengo gradualmente colto dalla sensazione che ci sia qualcosa di terribilmente famigliare, persino identificabile, nell'esperienza che i (nord)americani stanno ora vivendo. La rassomiglianza che sto rievocando va ben al di là di un facile e superficiale confronto

No, ciò che riconosco è qualcosa di più profondo, una sofferenza parallela, un dolore simile, un uguale disorientamento che richiama quanto abbiamo vissuto in Cile quell'11 settembre. La sua espressione più straordinaria - ancora non riesco a credere ai miei occhi - è quanto vedo sullo schermo: centinaia di parenti che vagano per le strade di New York, tenendo in mano le foto di figli, padri, mogli, amanti, figlie, elemosinando informazioni, chiedendo se sono vivi o morti, costringendo tutti gli Stati Uniti a guardare nell'abisso di ciò che significa essere desaparecido, senza alcuna certezza né alcun funerale per i cari che mancano all'appello. E pure riconosco e rivivo la sensazione di estrema irrealtà che inevitabilmente accompagna i grandi disastri causati dall'iniquità umana, assai più difficili da affrontare delle catastrofi naturali. Continuo a sentire frasi che mi ricordano quanto persone come me ripetevano a sé stessi durante il golpe del 1973 e i giorni seguenti: "Non può succedere a noi. Non siamo noi le vittime di una violenza così smisurata, queste forme di distruzione le abbiamo viste solo nei film, nei libri e in fotografie lontane. Se è un incubo perché non riusciamo a svegliarci?".

D'ora in poi la vita negli Stati Uniti dovrà condividere la precarietà e l'incertezza che è realtà quotidiana per la stragrande maggioranza degli altri abitanti di questo pianeta. Nonostante il tremendo dolore, le perdite intollerabili che il crimine apocalittico ha causato agli americani, mi chiedo se questa prova non possa costituire una di quelle opportunità di rigenerazione e autoconoscenza che, di tanto in tanto, viene imposta, oserei dire come una benedizione, a certe nazioni.

Uno dei modi in cui gli americani possono superare il trauma e la paura, continuando a vivere e a prosperare in mezzo dell'incertezza che li ha improvvisamente travolti, è quello di ammettere che la loro sofferenza non è né esclusiva né unica e che, dal momento in cui sono disposti a rispecchiarsi nella variegata natura umana dei nostri simili, sono uguali a tanti altri esseri umani che, in zone apparentemente distanti, hanno subìto analoghe situazioni di violenza e furia inaspettate e spesso prolungate.

Copyright El País (traduzione del gruppo Logos)

Afghanistan, oppio e povertà
Storia politica ed economica di un paese-chiave per la soluzione della crisi internazionale.
E una ricca web guide di Paolo Migliavacca su il Sole24ore
Tocca oggi all'Afghanistan assumere il ruolo di Stato-chiave. In queste ore gli occhi del mondo sono puntati su Kabul. I Talebani al potere devono decidere se e come rispondere agli Stati Uniti che reclamano la consegna del terrorista Osama bin Laden.
Nel Focus che proponiamo di seguito l'analisi della situzione politica ed economica del Paese e una web guide per saprene di più su istituzioni, partiti, mass media.

Kabul, vita da regime
Dal colpo di stato del 1973 ai Talebani, attraverso la lunga occupazione sovietica
il Sole24ore

L'oppio dei poveri
Ufficialmente uno dei paesi più poveri del mondo, ma il vero affare è costituito dalla coltivazione del papavero
il Sole24ore

"La Cina teme l'integralismo, Bush deve coinvolgerla"
Enrica Collotti-Pischel su l'Unità

"È vitale che la Cina sia pienamente inserita in uno sforzo internazionale contro il terrorismo, ribadendo con ciò il suo ruolo di potenza mondiale e di fattore decisivo per la sorte dell'Asia". L'attacco agli Usa, le possibile ricadute sugli equilibri geopolitici di un'area, come quella centroasiatica, nevralica non solo sul piano militare e su quello economico. E al centro, il ruolo della Cina. Di questo disutiamo con la massima autorità accademica negli studi del "pianeta-Cina": la professoressa Enrica Collotti-Pischel.
I confini tra Afghanistan e Pakistan presi d'assalto da migliaia di civili in fuga. L'America pronta ad attaccare l'Afghanistan. E tutto questo avviene in un'area presidiata dalla potenza cinese. Cosa dobbiamo attenderci da Pechino?
"Indubbiamente i cinesi temono che da un'Afghanistan distrutto o comunque fortemente colpito, possano rifluire integralisti islamici verso lo Xijang rafforzando così quello che per ora è un modestissimo movimento di protesta integralistica in questa regione assolutamente vitale per la Cina. Anche la repressione di Pechino contro gli integralisti uighuri è stata limitata, pur se condannata dagli Stati Uniti. Al di là di questo, il problema è molto più ampio e complesso: la Cina non è un Paese investito direttamente dal problema dell'integralismo, a differenza della Russia, perché il problema uighuro in Cina è marginale".
In cosa si sostanzia?
"La maggioranza dei musulmani cinesi, chiamati hui, sono cinesi convertitisi all'Islam che parlano e scrivono in cinese, e sono tradizionalmente integrati. Essi collborarono con i comunisti nella resistenza contro l'invasore giapponese. Gli uighuri sono invece di etnia turca e sono affini alle popolazioni delle ex Repubbliche sovietiche, in particolare ai turkmeni e agli uzbeki, ma sono molto più sinizzati di quanto fossero "sovietizzati" gli uzbeki e i turkmeni".
Dal piano interno a quello dei delicati equilibri regionali. Qual è in proposito il punto di vista di Pechino?
"La Cina guarda da anni con estremo interesse all'Asia centrale ex sovietica dove indubbiamente il problema dell'integralismo islamico è di estrema importanza e pericolosità. In particolare, la Cina è sensibile alla sorte del Kazakistan. In tutta quest'area è in corso una partita strategica assai rilevante per la presenza di ingenti risorse petrolifere e di gas, e per le decisioni da prendere sul percorso degli oleodotti e gasdotti che alla Cina interesserebbero molto. Non a caso qualche mese fa è stato tenuto un incontro, erroneamente sottovalutato dalla stampa occidentale, tra Putin, Jang Xemin e i presidenti di queste Repubbiche ex sovietiche proprio per far fronte all'integralismo islamico e anche per decidere la strategia economico-politica comune per le sorti delle ricchezze presenti in Asia centrale".
Quando si parla degli equilibri di potenza nella regione centroasiatica il riferimento d'obbligo è ai rapporti tra Cina e Pakistan.
"Per anni il Pakistan è stato sostenuto dalla Cina in funzione anti-indiana. Sarebbe molto importante che questo sostegno di Pechino cessasse e che nel quadro dell'attuale crisi si giungesse alla conclusione delle annose trattative tra Russia e Cina per la definizione di confini che non sono in effetti contestati da alcuna delle due parti".

C'è chi paventa il rischio che l'immanente risposta militari ai terribili attacchi terroristi contro New York e Washington, possa trasformarsi in una "guerra di civiltà"?
"In linea teorica e di fatto non credo alla "guerra di civiltà" delineata da Samuel Huntington così come la realtà dei fatti ha dimostrato l'assoluta inconsistenza della teoria della fine della Storia dopo la vittoria dell'Occidente sull'impero sovietico. Detto questo, è indubbio che la paura può trasformarsi in atteggiamenti di chiusura anche di stampo razzistico. Gli episodi registratisi in America di "caccia all'arabo" anche se isolati sono comunque un campanello d'allarme. Ma a riflettere dovrebbero essere gli stessi musulmani che certamente, come dimostra la recente Conferenza Onu di Durban, non sono immuni da pregiudizi razziali e antisemiti".

Greenspan spegne le Borse
Oltre il 4% il crollo su tutti i mercati
Su il Sole24ore

L'economia americana "si è fermata", dopo la tragedia dell'11 settembre a New York, e per un certo periodo subirà conseguenze "pronunciate": il primo intervento pubblico del governatore della Fed Alan Greenspan dopo l'attacco terroristico alle Torri gemelle non ha fatto molto per fermare l'ondata di vendite a Wall Street. E tuttavia, spostando lo sguardo sul medio periodo, il governatore si è fatto più rassicurante: "Le fondamenta della nostra società restano sane - ha detto il governatore - e sono sicuro che ci riprenderemo e prospereremo come abbiamo fatto in passato". Greenspan, che ha parlato alla commissione bancaria del Senato insieme al segretario al Tesoro Paul O'Neill, ha consigliato al Congresso di non precipitarsi su pacchetti di stimolo all'economia prima che l'impatto di quanto è accaduto la settimana scorsa non sia chiarito. Le parole di Greenspan, sommate alle tensioni internazionali e ai timori sulla redditività aziendale hanno messo di nuovo ko Wall Street. Ieri l'indice Dow Jones ha perso il 4,3% mentre il Nasdaq ha lasciato sul terreno il 3,7 per cento. Hanno chiuso in calo anche tutti i listini del Vecchio continente: Milano ha perso il 4,43%, Parigi il 3,88%, Francoforte il 5,74%. Continuano a soffrire tutti i settori e in particolare le compagnie aeree, gli assicurativi e l'auto.

L'economia violentata
Jean-Paul Fitoussi su la Repubblica


L'evoluzione liberista delle nostre società ha comportato quasi ovunque una volontà di limitare gli spazi delle decisioni pubbliche dichiarando, con il pretesto della globalizzazione, l'impotenza degli Stati. Ma com'è naturale, quando si verifica un evento estremo, le popolazioni riscoprono acutamente il bisogno del collettivo, l'interesse a essere governate, l'importanza dei servizi pubblici, del loro buon funzionamento. Da qui il timore di un ridimensionamento della domanda privata, nel momento stesso in cui si percepisce l'immensa utilità della spesa pubblica e di tutte le protezioni che assicura. Il Congresso degli Stati Uniti ha votato un credito pari al doppio di quanto richiesto dal presidente. Lo stesso giorno, la Fed e la Banca centrale europea hanno ridotto i tassi di interesse di mezzo punto. E si può supporre che in Europa il dibattito sui deficit, condotto finora con criteri aritmetici, prosegua ora su un piano più elevato.
Al di là del brevissimo termine, le conseguenze economiche di questo dramma non potranno dunque essere valutate indipendentemente dalle risposte politiche che verranno date. Risposte che avranno un carattere multidimensionale, nell'ordine interno come in quello della cooperazione internazionale, ivi compresi gli aiuti allo sviluppo.

La globalizzazione torna così a far parte delle competenze dei governi, piuttosto che del management degli affari. Le fratture che dividono il mondo, tra paesi poveri e paesi ricchi come all'interno di questi ultimi, appaiono ancor meno accettabili. Si incomincia a comprendere meglio che la globalizzazione è anche un discorso retorico di legittimazione dei profitti di chi più guadagna, nel rapporto tra nazioni così come in seno alle nazioni stesse, e non di rado serve gli interessi di un corporativismo dei ricchi. È la struttura del mondo quale è oggi, non il merito comparato di ciascuno, a "permettere" agli uni di guadagnare e agli altri di perdere. Ma se l'evento invita a ripensare l'organizzazione del mondo e a rivedere il concetto di sovranità delle nazioni – in realtà molto maggiore di quanto non si pensi e si dica – è bene guardarsi da ogni ingenuità e diffidare delle comode scorciatoie verso le quali siamo portati dai nostri sensi di colpa di gente ben nutrita.

La recessione di domani si potrebbe desumere dai dati di oggi soltanto se a incontrare i meccanismi dei comportamenti individuali non intervenisse alcuna azione politica. Ma c'è anche la possibilità che il 21° secolo apra la strada a una riabilitazione del politico. In caso contrario, la recessione aggiungerebbe alla violenza sanguinaria la sua violenza economica, che come ben sappiamo ha sempre colpito in misura sproporzionata i paesi più fragili e più poveri.


  21 settembre